giovedì 2 settembre 2010
a volte ritornano....
Alighiero Boetti (Torino, 16 dicembre 1940 – Roma, 24 aprile 1994) è stato uno dei maggiori artisti italiani del secondo dopoguerra. Accanto ad altri importanti nomi come: Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio, ha fatto parte, negli anni Sessanta, del gruppo Arte Povera, dal quale però si è distaccato precocemente.
Le sue opere più celebri sono arazzi di diverso formato in cui sono inserite, suddivise in griglie, frasi e motti inventati dall'artista (per es. Il progressivo svanire della consuetudine, Dall'oggi al domani, Creare e ricreare, Non parto non resto, ecc).
La sua attitudine all'arte ha influenzato artisti di differenti generazioni, da Francesco Clemente a Maurizio Cattelan. All'estero l'eredità del suo lavoro ha lasciato segni profondi nelle opere del messicano Gabriel Orozco e nelle riletture della recente storia dell'arte dell'inglese Jonathan Monk, il quale sembra provare per Boetti un'autentica ammirazione.
Boetti propone a sé stesso dei sistemi nei quali agire, spesso coinvolgendo altre persone. Oppure sono la geografia, la matematica, la geometria, i servizi postali, a fornire la piattaforma delle proprie scelte. Il suo lavoro mette in discussione il ruolo tradizionale dell'artista, interrogando i concetti di serialità, ripetitività e paternità dell'opera d'arte.
Dopo l'opera Gemelli il filo comune che lega molti suoi lavori è sottendere nel processo creativo un dualismo di intenti. Questo avviene specialmente dopo la sperimentazione con i materiali poveri quando Boetti si trasferisce nella capitale e decide di ripartire veramente da qualcosa di semplice, una matita e un foglio di carta quadrettato.
I meccanismi che inventerà per i suoi lavori sono strutture di pensiero applicabili alle cose senza potersi esaurire. Una volta reso chiaro il principio che li genera si staccano da schemi soggettivi e permettono la libertà di autogenerarsi come le cose della natura.
Alighiero Boetti ha visto la pittura come un "tradimento" verso gli ideali (artistici e politici) esplosi nel Sessantotto: dipingere rappresenta una sorta di distacco dal mondo reale da guardare con disprezzo, per chi - come lui - si sente direttamente coinvolto dal presente e dalla cronaca.[1]
Il mercato del collezionismo d'Arte Contemporanea lo ha esaltato nell'ultimo decennio, ponendo la totalità delle sue opere anche al definitivo rango di investimento finanziario. In questo senso quotazioni in continua crescita hanno interessato in sedi d'aste internazionali l'intera gamma della sua produzione artistica.
Le opere realizzate dall'artista torinese, per maggiore chiarezza ai miei visitatori del Blog, possono essere suddivise in quattro periodi:
1964 - 1969 dai lavori a china alla prima stagione dell'arte povera;
1970 - 1979 dai lavori postali a quelli basati su schemi geometrici e matematici, ai primi arazzi e Mappe del mondo;
1980 - 1989 dalle composizioni su carta ai grandi arazzi del ciclo "Tutto";
1990 - 1994 dai Fregi per la Biennale di Venezia ai grandi tappeti kilim, alla scultura autoritratto "Mi fuma il cervello".
ALIGHIERO e BOETTI Opere 1980-1989
(periodo da me preferito)
Negli anni '80 si intensifica la produzione dei lavori su carta, in cui Boetti crea un microcosmo di immagini e iscrizioni. Molte di queste carte sono una sorta di diario sul quale l'artista appunta date, pensieri, riflessioni. Le frasi sono sempre scritte con la mano sinistra in quanto per l'artista "scrivere con la sinistra è disegnare".
Spesso le carte presentano riferimenti a immagini di opere precedenti, con collage di elementi fotografici o serigrafici.
L'iconografia autoreferenziale di "Due mani e una matita" ritorna come base serigrafica in diverse opere, tra cui quelle della serie "Tra sé e sé".
In "Afghanistan" l'artista pone al centro della composizione - tra sé e sé - una forma in inchiostro nero contenente le sagome dello stato dell'Afghanistan. Questo è un omaggio che Boetti fa a questo paese, che aveva eletto a suo paese adottivo e nel quale aveva soggiornato a più riprese a partire dal 1971, e che in seguito all'occupazione da parte delle armate sovietiche nel 1980 non avrebbe più potuto visitare.
Come a contrastare questo sentimento di tristezza, Boetti dà vita ad un nuovo ciclo di opere coloratissime, "La natura, una faccenda ottusa". Sono tecniche miste in cui è spesso predominante l'uso del collage di piccole carte veline dipinte e ritagliate con la forma di animali: rane, tartarughe, scimmie, felini, pesci.
Prosegue parallelamente la realizzazione delle opere a biro su carta demandata agli assistenti, mentre rallenta la produzione degli arazzi e delle mappe, che fino al 1983 saranno ancora ricamati a Kabul da poche donne. Costantemente prosegue il lavoro di aggiornamento delle bandiere delle mappe conseguentemente ai cambiamenti della situazione geo-politica.
Dal 1984-85 i ricami verranno ripresi dalle donne afghane rifugiatesi a Peshawar in Pakistan.
Di questi anni sono le "Copertine" che ripercorrono mese per mese le prime pagine delle maggiori testate internazionali relative all'anno in corso.
Nella seconda metà degli anni '80 ha un forte impulso il lavoro dedicato agli arazzi di piccola e grande dimensione.
Alle lettere che compongono le frasi in lingua italiana disposte in quadrato si aggiungono alcuni testi in lingua inglese, francese, tedesca, giapponese, in particolare riferiti ai numeri e alle tavole pitagoriche.
Aumenta la complessità della composizione degli arazzi di grande formato, dove la struttura delle griglie e lo scorrimento dei testi assumono numerose varianti, sempre basate sullo studio dei quadrati e dei numeri. E' necessaria quindi una maggiore attenzione per riuscire a leggerli.
Su alcuni questi ricami sono inserite iscrizioni in lingua afghana (farsi), con brani di poesie o frasi di ringraziamento rivolete dalle ricamatrici all'artista - datore di lavoro (da loro chiamato "Ali Ghiero").
Intorno al 1988 inizia un nuovo ciclo di grandi arazzi ricamati, denominati "Tutto". Queste opere fanno riferimento ad un gruppo di opere precedenti intitolate "Pack".
I "Tutto" vengono realizzati da Boetti con l'aiuto dei suoi assistenti con l'obiettivo di occupare l'intera superficie della tela da ricamare con elementi figurali di ogni tipo fittamente accostati.
Anche qui Boetti cerca di limitare il suo intervento manuale diretto, come anche per la scelta dei colori, lasciata - salvo alcune regole e criteri decisi alla base - alle ricamatrici.
L'artista dichiara al "Corriere della Sera" del 19 gennaio 1992:"Per non creare gerarchie tra i colori li uso tutti. Il mio problema infatti è di non fare scelte secondo il mio gusto ma d'inventare sistemi che poi scelgono per me".
Le sue opere più celebri sono arazzi di diverso formato in cui sono inserite, suddivise in griglie, frasi e motti inventati dall'artista (per es. Il progressivo svanire della consuetudine, Dall'oggi al domani, Creare e ricreare, Non parto non resto, ecc).
La sua attitudine all'arte ha influenzato artisti di differenti generazioni, da Francesco Clemente a Maurizio Cattelan. All'estero l'eredità del suo lavoro ha lasciato segni profondi nelle opere del messicano Gabriel Orozco e nelle riletture della recente storia dell'arte dell'inglese Jonathan Monk, il quale sembra provare per Boetti un'autentica ammirazione.
Boetti propone a sé stesso dei sistemi nei quali agire, spesso coinvolgendo altre persone. Oppure sono la geografia, la matematica, la geometria, i servizi postali, a fornire la piattaforma delle proprie scelte. Il suo lavoro mette in discussione il ruolo tradizionale dell'artista, interrogando i concetti di serialità, ripetitività e paternità dell'opera d'arte.
Dopo l'opera Gemelli il filo comune che lega molti suoi lavori è sottendere nel processo creativo un dualismo di intenti. Questo avviene specialmente dopo la sperimentazione con i materiali poveri quando Boetti si trasferisce nella capitale e decide di ripartire veramente da qualcosa di semplice, una matita e un foglio di carta quadrettato.
I meccanismi che inventerà per i suoi lavori sono strutture di pensiero applicabili alle cose senza potersi esaurire. Una volta reso chiaro il principio che li genera si staccano da schemi soggettivi e permettono la libertà di autogenerarsi come le cose della natura.
Alighiero Boetti ha visto la pittura come un "tradimento" verso gli ideali (artistici e politici) esplosi nel Sessantotto: dipingere rappresenta una sorta di distacco dal mondo reale da guardare con disprezzo, per chi - come lui - si sente direttamente coinvolto dal presente e dalla cronaca.[1]
Il mercato del collezionismo d'Arte Contemporanea lo ha esaltato nell'ultimo decennio, ponendo la totalità delle sue opere anche al definitivo rango di investimento finanziario. In questo senso quotazioni in continua crescita hanno interessato in sedi d'aste internazionali l'intera gamma della sua produzione artistica.
Le opere realizzate dall'artista torinese, per maggiore chiarezza ai miei visitatori del Blog, possono essere suddivise in quattro periodi:
1964 - 1969 dai lavori a china alla prima stagione dell'arte povera;
1970 - 1979 dai lavori postali a quelli basati su schemi geometrici e matematici, ai primi arazzi e Mappe del mondo;
1980 - 1989 dalle composizioni su carta ai grandi arazzi del ciclo "Tutto";
1990 - 1994 dai Fregi per la Biennale di Venezia ai grandi tappeti kilim, alla scultura autoritratto "Mi fuma il cervello".
ALIGHIERO e BOETTI Opere 1980-1989
(periodo da me preferito)
Negli anni '80 si intensifica la produzione dei lavori su carta, in cui Boetti crea un microcosmo di immagini e iscrizioni. Molte di queste carte sono una sorta di diario sul quale l'artista appunta date, pensieri, riflessioni. Le frasi sono sempre scritte con la mano sinistra in quanto per l'artista "scrivere con la sinistra è disegnare".
Spesso le carte presentano riferimenti a immagini di opere precedenti, con collage di elementi fotografici o serigrafici.
L'iconografia autoreferenziale di "Due mani e una matita" ritorna come base serigrafica in diverse opere, tra cui quelle della serie "Tra sé e sé".
In "Afghanistan" l'artista pone al centro della composizione - tra sé e sé - una forma in inchiostro nero contenente le sagome dello stato dell'Afghanistan. Questo è un omaggio che Boetti fa a questo paese, che aveva eletto a suo paese adottivo e nel quale aveva soggiornato a più riprese a partire dal 1971, e che in seguito all'occupazione da parte delle armate sovietiche nel 1980 non avrebbe più potuto visitare.
Come a contrastare questo sentimento di tristezza, Boetti dà vita ad un nuovo ciclo di opere coloratissime, "La natura, una faccenda ottusa". Sono tecniche miste in cui è spesso predominante l'uso del collage di piccole carte veline dipinte e ritagliate con la forma di animali: rane, tartarughe, scimmie, felini, pesci.
Prosegue parallelamente la realizzazione delle opere a biro su carta demandata agli assistenti, mentre rallenta la produzione degli arazzi e delle mappe, che fino al 1983 saranno ancora ricamati a Kabul da poche donne. Costantemente prosegue il lavoro di aggiornamento delle bandiere delle mappe conseguentemente ai cambiamenti della situazione geo-politica.
Dal 1984-85 i ricami verranno ripresi dalle donne afghane rifugiatesi a Peshawar in Pakistan.
Di questi anni sono le "Copertine" che ripercorrono mese per mese le prime pagine delle maggiori testate internazionali relative all'anno in corso.
Nella seconda metà degli anni '80 ha un forte impulso il lavoro dedicato agli arazzi di piccola e grande dimensione.
Alle lettere che compongono le frasi in lingua italiana disposte in quadrato si aggiungono alcuni testi in lingua inglese, francese, tedesca, giapponese, in particolare riferiti ai numeri e alle tavole pitagoriche.
Aumenta la complessità della composizione degli arazzi di grande formato, dove la struttura delle griglie e lo scorrimento dei testi assumono numerose varianti, sempre basate sullo studio dei quadrati e dei numeri. E' necessaria quindi una maggiore attenzione per riuscire a leggerli.
Su alcuni questi ricami sono inserite iscrizioni in lingua afghana (farsi), con brani di poesie o frasi di ringraziamento rivolete dalle ricamatrici all'artista - datore di lavoro (da loro chiamato "Ali Ghiero").
Intorno al 1988 inizia un nuovo ciclo di grandi arazzi ricamati, denominati "Tutto". Queste opere fanno riferimento ad un gruppo di opere precedenti intitolate "Pack".
I "Tutto" vengono realizzati da Boetti con l'aiuto dei suoi assistenti con l'obiettivo di occupare l'intera superficie della tela da ricamare con elementi figurali di ogni tipo fittamente accostati.
Anche qui Boetti cerca di limitare il suo intervento manuale diretto, come anche per la scelta dei colori, lasciata - salvo alcune regole e criteri decisi alla base - alle ricamatrici.
L'artista dichiara al "Corriere della Sera" del 19 gennaio 1992:"Per non creare gerarchie tra i colori li uso tutti. Il mio problema infatti è di non fare scelte secondo il mio gusto ma d'inventare sistemi che poi scelgono per me".
martedì 2 marzo 2010
Cari amici del Blog vi segnalo una deliziosa mostra del popolare artista americano contempornaeo Edward Hopper (1882-1967) al Museo Fondazione Roma (Museo del Corso)...davvero da non perdere ..........
Ma chi era Hopper?
Nato il 22 luglio del 1882 a Nyack, piccola cittadina sul fiume Hudson, da una colta famiglia borghese americana, Edward Hopper entra nel 1900 alla New York School of Art, un prestigioso istituto che ha sfornato nel tempo alcuni dei nomi più importanti della scena artistica americana.
A parte il clima stimolante e le opportunità di conoscenza e dibattito che l'artista ha occasione di intraprendere con i coetanei in quella scuola, la vera influenza sulla sua personalità artistica viene esercitata dagli insegnanti, che lo spingono a copiare le opere esposte nei musei e ad approfondirne gli autori.
Inoltre, fondamentale rimane il senso del gusto che le "autorità" culturali della scuola lo spingono ad introiettare, ossia il gusto per una pittura ordinata, dal tratto nitido e lineare. Questa impostazione, che ad un primo esame potrebbe apparire accademica, in realtà è coniugata (nell'intento degli insegnanti e poi fatta propria da Hopper), da un rapporto critico con le regole, che spinge e invoglia il giovane artista a trovare una propria strada personale in base al filtro della propria sensibilità.
Dopo il conseguimento del diploma e il primo impiego da illustratore pubblicitario alla C. Phillips & Company, Edward Hopper, nel 1906, compirà il suo primo viaggio in Europa, visitando Parigi, dove sperimenterà un linguaggio formale vicino a quello degli impressionisti, e proseguendo poi, nel 1907, per Londra, Berlino e Bruxelles. Tornato a New York, parteciperà a un'altra mostra di controtendenza organizzata da Henri presso l'Harmonie Club nel 1908 (un mese dopo quella del Gruppo degli Otto).
In questo periodo la maturazione artistica di Hopper avviene con estrema gradualità. Dopo aver assimilato la lezione dei più grandi maestri, fra tentativi ed esperimenti arriva a maturare un suo linguaggio originale, che trova la sua piena fioritura ed espressione solo nel 1909, quando deciderà di tornare a Parigi per sei mesi, dipingendo a Saint-Gemain e a Fontainebleau.
Fin dagli esordi della sua carriera artistica, Hopper è interessato alla composizione figurativa urbana e architettonica in cui inserire un unico personaggio, solo e distaccato psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. Inoltre il suo genio artistico gli ha permesso di costruire una tavolozza coloristica del tutto originale e riconoscibile, un uso della luce così originale come non succedeva dai tempi di Caravaggio. Lo studio degli impressionisti poi, e in particolare di Degas, (osservato e meditato durante il suo viaggio a Parigi nel 1910), gli infonde il gusto per la descrizione degli interni ed un uso dell'inquadratura di tipo fotografico.
L'estrema originalità di Hopper è facilmente verificabile se si pensa che il clima culturale europeo dell'epoca vedeva agitarsi sulla scena diverse tendenze certamente avanzate e rivoluzionare ma anche, talvolta, difettanti di un certo intellettualismo o di un forzato avanguardismo. Il ventaglio delle opzioni che un artista poteva abbracciare ai primi del novecento andavano dal cubismo al futurismo, dal fauvismo all'astrattismo. Hopper invece, predilige rivolgere il proprio sguardo al passato appena trascorso, recuperando la lezione di importanti maestri quali Manet o Pissarro, Sisley o Courbet, riletti però in chiave metropolitana e facendo emergere, nelle sue tematiche, le contraddizioni della vita urbana.
Nel 1913 partecipa all'Armory Show International Exhibition of Modern Art, inaugurata il 17 febbraio nell'armeria del 69° reggimento di fanteria di New York; mentre, nel 1918 sarà tra i primi membri del Whitney Studio Club, il più vitale centro per gli artisti indipendenti. Tra il 1915 e il 1923 Hopper abbandona temporaneamente la pittura per dedicarsi all'incisione, eseguendo puntesecche e acquaforti, grazie alle quali otterrà numerosi premi e riconoscimenti, anche dalla National Academy. Il successo ottenuto con una mostra di acquerelli (1923) e con un'altra di quadri (1924) contribuirà alla sua definizione di caposcuola dei realisti che dipingevano la "scena americana".
Nel 1933 il Museum of Modern Art di New York gli dedica la prima retrospettiva, e il Whitney Museum la seconda, nel 1950. In quei primi anni Cinquanta Hopper parteciperà attivamente alla rivista "Reality", fronte comune degli artisti legati alla figurazione e al realismo, che si contrapponevano all'Informale e alle nuove correnti astratte, venendo identificati erroneamente (nel clima della "guerra fredda" e della "caccia alle streghe" aperta da McCarthy) come simpatizzanti socialisti.
Al di là delle numerose e possibili interpretazioni della sua pittura, Hopper sarebbe rimasto fedele alla propria visione interiore fino alla sua morte, avvenuta il 15 maggio del 1967 nello studio newyorchese.
venerdì 8 gennaio 2010
Yayoi Kusama....ritorno in oriente.
Come ogni viaggio o diario di viaggio che si rispetti è opportuno che i miei visitatori tornino ad apprezare l'arte di una protagonista della scena mondiale, orientale, in mostra a Milano fino a l 14 febbraio 2010: Yayoi Kusama.
I pois colorati sono la sua ossessione artistica e il suo segno distintivo. Pare che Yayoi Kusama abbia iniziato a tracciarli ad appena dieci anni: pallini, grandi e piccoli, ma sempre rigorosamente pallini. Oggi che ha raggiunto gli ottanta (è nata vicino a Nagano nel 1929) è considerata una degli artisti giapponesi più influenti nel panorama contemporaneo, ha collezionato una serie di premi prestigiosi e perfino un documentario "Yayoi Kusama, I adore myself" che è un tributo a 360 grandi. Lei, habituée delle parrucche pop - caschetti colorati, soprattutto - e del look estroverso – che, ovviamente, non prescinde dagli amati pois - si reputa più che altro una "scultrice d'avanguardia, pittrice e scrittrice", come recita il suo aggiornatissimo sito internet http://www.yayoi-kusama.jp/.
L'omaggio all'artista giapponese arriva da Milano: (dal 28 novembre al 14 febbraio 2010 ) le sue opere sono state e sono protagoniste di una grande retrospettiva al Pac.
La mostra, "Yayoi Kusama. I want to live forever", curata dal direttore del National Museum of Art di Osaka Akira Tatehata, è una finestra aperta sulla sua produzione, estremamente variegata. L'esposizione, innanzitutto, prende il nome da uno straordinario dipinto in acrilico su cinque pannelli che l'artista ha prodotto nel 2008 e che si intitola "Voglio vivere per sempre". I dipinti Infinity – tele in cui i pois sono bolle o palle di fuoco uniformemente distribuite in un universo monocromatico dai toni psichedelici – attraversano trasversalmente la carriera dell'artista nipponica: dagli anni Cinquanta, quando Kusama si trasferì a New York, ad oggi. Opere come "Dots obsession(tosia)" - pois neri su sfondo giallo, sembrano anti pianeti immobili nell'universo - e "Universe Fireballs" infatti sono state realizzate negli ultimi due anni.
Pezzo forte dell'esposizione l'installazione-scultura "Narcissus Garden" che, presentata alla Biennale di Venezia nel 1966, è arrivata nel capoluogo lombardo per la prima volta. Un ambiente interattivo formato da millecinquecento sfere metalliche (creato con l'aiuto di Lucio Fontana) che simboleggia sia l'estro creativo di Kusama sia la sua volontà di sconvolgere i canoni tradizionali dell'arte e del sistema che intorno ad essa ruota. "Narcissus Garden" fu presentato sul prato del Padiglione Italiano da una minuta Yayoi in kimono. Che, in segno di provocazione, si mise a vendere le sfere a 1200 lire l'una in un'epoca nella quale il legame tra arte e valore veniva passato sotto silenzio e apertamente snobbato.
Tante le sculture eccentriche – "Flowers that bloom at midnight", fiori in plastica, fibra di vetro e metallo che, con le loro tinte shock e i pois, ammiccano allo stile manga in formato gigante (sono alti 1,5 e 5 mt) – e le installazioni visionarie, parte integrante della creatività della Kusama. Che sembra voler indagare (o esorcizzare) attraverso forme diverse le dimensioni inesplorabili della realtà: il vuoto, lo spazio, i misteri dell'universo fisico e metafisico. Aprire la porta bianca di "Aftermath of obliteration of Eternity" significa, ad esempio, immergersi in un universo buio, costellato da piccole luci appese a fili dal soffitto. L'atmosfera ricreata è davvero magica: sembra di essere nel cuore di una galassia.
L'omaggio all'artista giapponese arriva da Milano: (dal 28 novembre al 14 febbraio 2010 ) le sue opere sono state e sono protagoniste di una grande retrospettiva al Pac.
La mostra, "Yayoi Kusama. I want to live forever", curata dal direttore del National Museum of Art di Osaka Akira Tatehata, è una finestra aperta sulla sua produzione, estremamente variegata. L'esposizione, innanzitutto, prende il nome da uno straordinario dipinto in acrilico su cinque pannelli che l'artista ha prodotto nel 2008 e che si intitola "Voglio vivere per sempre". I dipinti Infinity – tele in cui i pois sono bolle o palle di fuoco uniformemente distribuite in un universo monocromatico dai toni psichedelici – attraversano trasversalmente la carriera dell'artista nipponica: dagli anni Cinquanta, quando Kusama si trasferì a New York, ad oggi. Opere come "Dots obsession(tosia)" - pois neri su sfondo giallo, sembrano anti pianeti immobili nell'universo - e "Universe Fireballs" infatti sono state realizzate negli ultimi due anni.
Pezzo forte dell'esposizione l'installazione-scultura "Narcissus Garden" che, presentata alla Biennale di Venezia nel 1966, è arrivata nel capoluogo lombardo per la prima volta. Un ambiente interattivo formato da millecinquecento sfere metalliche (creato con l'aiuto di Lucio Fontana) che simboleggia sia l'estro creativo di Kusama sia la sua volontà di sconvolgere i canoni tradizionali dell'arte e del sistema che intorno ad essa ruota. "Narcissus Garden" fu presentato sul prato del Padiglione Italiano da una minuta Yayoi in kimono. Che, in segno di provocazione, si mise a vendere le sfere a 1200 lire l'una in un'epoca nella quale il legame tra arte e valore veniva passato sotto silenzio e apertamente snobbato.
Tante le sculture eccentriche – "Flowers that bloom at midnight", fiori in plastica, fibra di vetro e metallo che, con le loro tinte shock e i pois, ammiccano allo stile manga in formato gigante (sono alti 1,5 e 5 mt) – e le installazioni visionarie, parte integrante della creatività della Kusama. Che sembra voler indagare (o esorcizzare) attraverso forme diverse le dimensioni inesplorabili della realtà: il vuoto, lo spazio, i misteri dell'universo fisico e metafisico. Aprire la porta bianca di "Aftermath of obliteration of Eternity" significa, ad esempio, immergersi in un universo buio, costellato da piccole luci appese a fili dal soffitto. L'atmosfera ricreata è davvero magica: sembra di essere nel cuore di una galassia.
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