venerdì 23 ottobre 2009

Mariko Mori Story

Ritengo fondamentale chiarire ai miei visitatori da dove nasca la mia adorazione nei confronti della cultura orientale, ed in particolare l'amore verso le realizzazioni dell'artista contemporanea Mariko Mori. Tale artista nipponica è stata da me conosciuta nella lontana Biennale di Venezia del 1997, anno nel quale venne esposta la sua celebre installazione Nirvana (opera video in 3D). In quell'occasione rimasi folgorata dalla maestria con la quale Mori fu in grado di cucire il connubio sogno e arte, tanto che decisi di sceglierla come protagonista della mia tesi di Laurea in Arte Contemporanea.
Il nodo sogno e tecnologia, passato e presente, spirito e corpo mi sono parsi, da subito, il principio di forza dei suoi lavori, la trascrizione sognata e ripensata, con un'estetica contemporanea, di antiche tradizioni orientali. A tal proposito ho favorito, nel mio bolg, la proposta di opere di Mori nella quali siano evidenti simili intenti, suggerendo anche link ed artisti a lei vicini, in grado di promuovere la costruzione di un'attenzione verso i nessi tra arte, nuove tecnologie e sogno.
Mariko Mori nasce a Tokyo nel 1967, suo padre è uno scienziato giapponese. Nel corso degli anni ottanta lavora come modella e nel 1988 si diploma in Fashion Design al Bunka Fashion College di Tokyo.
Successivamente si reca a Londra dove prosegue i suoi studi artistici e nel 1992 si trasferisce definitivamente a New York e inizia lì un programma di studio indipendente per il Whitney Museum. Al momento vive e lavora tra New York e Tokyo.
I primi lavori di Mariko Mori risalgono agli inizi degli anni novanta, ma è con la personale "Made in Japan" in mostra a New York e successivamente a Tokyo nel 1995 e '96 che l’artista ottiene attenzione internazionale. In queste esposizioni, emerge con evidenza un carattere fondamentale delle sue opere: l’attaccamento e la passione dell’artista giapponese alla sua patria e gli influssi che la cultura contemporanea, con la sua profusione di artifici e stili di vita d’importazione occidentale operano in essa. Uno dei più rappresentativi lavori del periodo è Birth of a Star, una stampa di larghe dimensioni (183 x 122 cm), presentata in un light box, un tipo di formato usato spesso in pubblicità, con una resa fotografica tridimensionale e luminosa, realizzata tramite tecniche computerizzate, che rappresenta l’artista nel ruolo di moderna bambolina consumistica, con fattezze da pop star, abbigliata con vestiti di plastica futuristici (ideati dalla stessa Mori), in uno spazio luminoso, senza gravità, in cui galleggiano colorate e iridescenti bollicine di varie dimensioni. La foto è accompagnata da una canzone pop, composta e cantata dall’artista, che aumenta così ulteriormente il senso di coinvolgimento/straniamento del fruitore di fronte a questa affascinante, irreale figura. La Mori ha realizzato nel 1998 una bambolina identica a quella della foto, prodotta in 99 esemplari per la rivista Parkett.
In un’altra foto, Tea Ceremony III, anch’essa facente parte della mostra di New York del 1995, vediamo l’artista interpretare la parte di un’impeccabile segretaria dalle inquietanti orecchie a punta ‘vulcaniane’, mentre porge sorridente e compita delle tazze di tè. L’effetto straniante è qui dato dalla scena in cui si svolge questa graziosa cerimonia: un contesto urbano e moderno, probabilmente l’atrio di un grattacielo di Tokyo, da dove escono, senza notarla, due seriosi uomini d’affari in grisaglia e una passante distratta. Anche questa foto è stata realizzata tramite tecniche computerizzate, ed è stata stampata su supporti di alluminio e legno. La figura della Mori travestita da segretaria è stata aggiunta in fase di rielaborazione grafica ad una precedente immagine di un edificio realmente esistente. Questo tipo di tecnica, molto usata nelle prime opere della Mori, quelle che sono state recepite da più parti come provocatorie reazioni alla subalternità della donna in Giappone, consente all’artista di giocare con lo stereotipo femminile, creando a tavolino figure di donne artificiali, a metà tra l’umano e l’androide, cyborg venute dal futuro, che collocate tramite il computer in contesti reali, aumentano il carattere stridente dell’accostamento, creando attorno a queste ‘electric geisha’ un alone, un’aura da creature mitologizzate e distanti.
La critica ha parlato spesso, per quanto riguarda questi primi lavori, di notevoli influenze della Pop Art americana. In esse ha scorto il tocco ironico e celebrativo di Warhol e la forza dissacrante di Cindy Sherman nel prendersi gioco e dissezionare le identità contemporanee concepite come maschere sociali. La Mori applica questa eredità teorica a una cultura come quella del Giappone contemporaneo, una cultura fatta di tradizioni antichissime e molto radicate ma anche di ricerca tecnologica avanzata, e di costante spinta verso tutto ciò che è nuovo e futuristico. In questo senso, la scelta della Mori di prendere a soggetto un tema come quello della cerimonia del tè, è molto significativo. Lei stessa, in un’intervista, dichiarò che tale scelta fu fatta perché il rituale legato a questa cerimonia era uno dei suoi più vividi ricordi d’infanzia.
Le sue tematiche, col tempo, diventano più ampie, rinunciando al precedente atteggiamento di critica e commento sociale. L’artista attinge adesso a contenuti di carattere universale, archetipico, filosofico. Il suo scopo è di “rivolgersi all’essenza delle cose, per riuscire a mostrare nuove possibilità, anche se tutto questo può sembrare un’utopia”.
Per riuscire a fare questo, per dare forma a questo progetto di utopia, la Mori si serve delle più avanzate soluzioni tecnologiche. Si potrebbe quasi affermare che gran parte del senso della sua arte sia, in realtà, contenuto in questo suo particolare utilizzo del mezzo tecnologico. Come dire che l’utilizzo di questo supporto non è casuale, ma portatore di profondi significati, altrimenti semplicemente inarticolabili.
In questo caso si può senz’altro affermare, con un’espressione ormai molto conosciuta, che ‘il medium è il messaggio’, o, almeno, ne costituisce una gran parte. L’inizio della transizione verso tematiche più complesse avviene verso la metà della sua carriera. Un’opera del 1997, intitolata Nirvana è in questo caso significativa. Si tratta di un video tridimensionale presentato alla Biennale di Venezia del 1997, in cui la Mori assume le sembianze della dea buddista Kichijoten.Gli spettatori, forniti di occhiali speciali che consentono la visualizzazione tridimensionale, sono immersi nello spazio illusorio del video. Presenti in prima persona nell’atmosfera fiabesca e senza tempo del paesaggio, sono chiamati a contemplare da vicino le magiche trasformazioni della dea, la cui eterea apparizione è accompagnata da segni miracolosi come profumi, musiche e l’improvviso materializzarsi di presenze fisiche. Nella tradizione zen l’illuminazione coincide con il manifestarsi di immagini specifiche. La Mori si serve della tecnologia per creare artificialmente una rappresentazione di questo stato di coscienza. Il suo, spiega l’artista in molte dichiarazioni, non è un paradosso, in quanto la visualizzazione attraverso le tecnologie come la computer graphic e i sistemi di virtual reality le consentono di "concretizzare uno spazio in cui sia possibile, mediante un’esperienza visuale e uditiva, guardare in se stessi, creando uno spazio meditativo". La tecnologia, quindi, nella visione della Mori, condividerebbe con la pratica zen la stessa esigenza di creare un universo di ordine alternativo, un luogo ideale di perfezione e trascendenza.
Questo concetto è espresso perfettamente nella mostra che la Mori ha tenuto nel 1999 alla Fondazione Prada, intitolata "Garden of Purification".
Opera centrale dell'esposizione: il Dream Temple. Tale installazione rappresenta la meta della più elevata spiritualità e il concetto di ‘illuminazione’. Mariko Mori per quest’opera si è ispirata allo Yumedono (tempio dei sogni), un tempio realizzato intorno al 739 d.C. che si trova nel monastero buddista di Horyuji, a Nara, e rappresenta un’importante architettura sacra, un simbolo del pensiero buddista.
L’opera, a pianta ottagonale, è sostenuta da una serie di pilotis e poggia su un tappeto di sale. Attraverso quattro aperture munite di scalette composte da otto gradini ognuna si accede a uno spazio circolare che circonda una struttura chiusa, la parte più interna del tempio, in cui è installato un sistema ‘VisionDome’, una tecnologia che permette, tramite uno schermo e una proiezione tridimensionale di forma emisferica, una totale immersione in un ambiente tridimensionale creato digitalmente, senza però la necessità di indossare alcun tipo di interfacce come data glove, o head-mounted displays. Lo spettatore è libero di muoversi e di cambiare punto di vista senza per questo perdere la pienezza della visione. La proiezione sferica rimanda a un’idea di illimitatezza, di assenza di confini che sarebbe invece invece impossibile con una visione su uno schermo lineare.
L’installazione è stata realizzata con materiali molto particolari che le conferiscono un aspetto luminoso, etereo, fluttuante. Per le pareti e le scale è stato usato uno speciale vetro, detto ‘dicroico’, che ha la proprietà di cambiare dall’opaco al trasparente e di riflettere la presenza umana grazie a cristalli liquidi e fibre ottiche contenute al suo interno. Il tetto del tempio è decorato ai lati con vetri di Murano a forma di goccia. Al di sotto della costruzione è posto un cristallo di quarzo bianco. L’uso di questi materiali, oltre che a dare al tutto un aspetto molto spettacolare, ha anche un significato simbolico. La trasparenza del vetro comunica un’idea di scambio e visibilità tra interno ed esterno, un annullamento di confini fisici e mentali, mentre il suo rimando all’immaterialità e alla trasparenza fornisce una sensazione di incorporeità, di distacco dalla condizione fisica. Le superfici cangianti del vetro dicroico rappresentano l’immagine della coscienza individuale, che può cambiare in ogni istante ed è inafferrabile nella sua essenza. Inoltre i suoi colori mutano secondo l’angolazione in cui è posto chi li osserva, proprio come la realtà stessa varia con un cambiamento di punto di vista.
Il sale, posto a tappeto sotto la struttura, è indice della necessaria purificazione che viene richiesta per entrare nel tempio e accedere quindi all’esperienza. Il quarzo bianco è la pietra associata al settimo chakra, il suo uso, nelle tradizioni orientali, incoraggia l’apertura della ‘corona’ per creare un contatto con l’assoluto e ricevere l’illuminazione.
Quando si accede alla parte più interna del tempio, un visitatore alla volta, si assiste, seduti, ad una proiezione del video 4’44”. Lo spettatore è completamente immerso e circondato dalle immagini del video, senza percepire stacchi o divisioni. Il contenuto del video è formato da immagini che rimandano in generale alla nozione di ‘vita’. Vengono mostrati atomi che si trasformano in pianeti, l’immagine di un feto umano, la formazione delle cellule in un uovo fecondato, acque cristalline e colorate, fonti luminose che emergono dal buio, il tutto comunica l’idea di un’incessante, continua trasformazione e di una dialettica degli elementi. Il bozzolo virtuale che racchiude lo spettatore è una sorta di grembo, un luogo germinativo in cui può nascere l’illuminazione da una visione digitale.
Ogni civiltà, ha sempre sognato di poter realizzare uno spazio utopico o uno spazio ideale, luogo di Bellezza e Perfezione, un non luogo (ou-topos) e un luogo felice (eu-topos), in questo senso lo sviluppo della tecnologia sembra legato al fatto di rendere possibili le utopie umane

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