Monica Bonvicini è nata a Venezia nel 1965, mentre vive a Berlino dal 1986.
Presente in numerose rassegne internazionali tra cui la Biennale di Venezia del 1999, dove ha vinto il Leone d’Oro (con Lambri, Esposito, Toderi, Pivi), e la Biennale di Istanbul del 2003, ha esposto nello stesso anno al Museo d’Arte Moderna di Oxford e (con Sam Durant) alla Secessione viennese.
Nel corso dell’ultimo decennio la giovane artista ha prodotto video, installazioni e fotografie che hanno investigato e rivelato i legami esistenti tra strutture architettoniche e strutture di potere. Interessata a decostruire la presunta neutralità dell’architettura e dell’arte moderna ne ha riletto i pregiudizi, lo sguardo maschile dominante, ne ha messo a nudo non solo le mitologie a monte, ma i meccanismi economici, culturali e sociali che ne hanno regolato l’esistenza.
I suoi lavori hanno invitato e invitano lo spettatore a stabilire un dialogo fisico con le opere, sulle quali spesso si può camminare, ci si può stendere e/o toccarle.
La sua ricerca ha, così, messo in evidenza anche la volontà di “precisare certe cose che normalmente sono state date per scontate”, ad esempio, rileggendo in tono dissacrante il concetto classico di ‘creazione’ artistica, realizzando opere in cui l’elemento principale non sia la costruzione del lavoro, bensì la sua distruzione (si veda il video Hammering Out, in cui una parete bianca viene martellata continuamente, oppure Plastered, dove un pavimento di
cartongesso e polistirolo viene distrutto dal continuo passaggio del pubblico).
I suoi lavori hanno invitato e invitano lo spettatore a stabilire un dialogo fisico con le opere, sulle quali spesso si può camminare, ci si può stendere e/o toccarle.
La sua ricerca ha, così, messo in evidenza anche la volontà di “precisare certe cose che normalmente sono state date per scontate”, ad esempio, rileggendo in tono dissacrante il concetto classico di ‘creazione’ artistica, realizzando opere in cui l’elemento principale non sia la costruzione del lavoro, bensì la sua distruzione (si veda il video Hammering Out, in cui una parete bianca viene martellata continuamente, oppure Plastered, dove un pavimento di
cartongesso e polistirolo viene distrutto dal continuo passaggio del pubblico).


In Destroy She Said, invece, l’artista guarda alla relazione tra lo spazio architettonico e i corpi femminili: in uno spazio apparentemente ancora in costruzione, una doppia proiezione mostra estratti da film degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, dove i corpi delle attrici sono costretti da elementi architettonici (contro un muro, una porta ecc.).


Per saperne di più...: Le Donne e l'Arte, le donne e l'arte nel XX e XXI secolo, a cura di Uta Gorsenick, Taschen, Colonia, 2001;
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